Keynes e il declino dell’impero americano

Il mondo ha tardato a capire che quest’anno stiamo vivendo all’ombra di una delle più grandi catastrofi della storia. Oggi infine anche l’uomo della strada si è reso conto di quanto sta accadendo; ma, non sapendo il perché e il come delle cose, è in preda a paure che potrebbero dimostrarsi eccessive, così come ieri, quando il pericolo andava profilandosi, gli mancava quella che sarebbe stata una ragionevole preoccupazione. Quest’uomo incomincia a dubitare del futuro: sta forse uscendo da un piacevole sogno e quelle che si trova di fronte sono le tenebre della realtà? O forse sta scivolando in un incubo destinato a dissolversi?

Sono dubbi inutili. Quello di prima non era un piacevole sogno; quello di oggi è un incubo destinato a dissolversi con il mattino. Le risorse della natura e gli artifici dell’uomo sono ancora oggi fecondi e produttivi non meno di ieri, il ritmo con cui procediamo alla soluzione dei beni materiali della vita non è meno rapido; uguale è la nostra capacità di permettere a ciascuno un livello di vita elevato (elevato, intendo, rispetto a una ventina di anni fa, per esempio), ed impareremo presto a sostenere un livello di vita ancor più elevato. Nessuno ci ha ingannati. Siamo, però, affondati in un enorme pantano per aver commesso un errore nel controllo di una macchina delicata di cui non comprendiamo il funzionamento.- Risultato è che le nostre capacità potenziali di ricchezza potranno andare sprecate per un certo periodo di tempo. Forse per un periodo lungo.

E’ probabile che la recessione in questo momento sia un pò appesantita da problemi psicologici. Una modesta reazione di segno positivo può, dunque, verificarsi in qualsiasi momento, ma, a mio avviso, non potrà trattarsi di una vera ripresa fino a che le idee degli erogatori del credito e quelle dei prenditori produttori non avranno ritrovato un punto di contatto: in parte attraverso l’accondiscendenza dei primi a fornire credito a termini favorevoli e in un ambito geografico più ampio, in parte attraverso una ripresa di entusiasmo dei secondi che li renda più propensi a contrarre un debito. Raramente il divario fra le due parti è stato così ampio e così difficile da superare.

(brano tratto da John Maynard Keynes, La Grande Depressione del 1930)

Ho riportato questo brano di Keynes, preso dall’illuminante saggio “Esortazioni e profezie”, per due motivi. Il primo è dimostrare che – diverse generazioni dopo – gli errori si ripetono e la storia si ripete: comportamento ciclico. Il secondo è dimostrare che esistono brani riferiti a una materia cangiante come l’economia che potrebbero essere perfettamente riportati – senza una virgola di cambiamento – in qualunque prima pagina di un giornale di oggi, tale è l’acume di chi li ha scritti e la loro attualità senza tempo. Keynes era senza dubbio un grande e un visionario: il semplice fatto che oltre settant’anni dopo abbia un’influenza cosi’ profonda su dibattiti e politiche economiche (alcune, interessanti, su www.chicago-blog.it) ne è la prova migliore.

Mi resta qualche dubbio sul fatto che Keynes stesso avrebbe approvato incondizionatamente ciò che è stato fatto in nome della sua teoria economica.

Essendo di carattere curioso e indisciplinato, mi ha sempre affascinato il rigore della scuola austriaca – imparato sul campo con la “Richebacher Letter”, report di un grande pensatore economico ex capo economista della Dresdner Bank – e soprattutto Schumpeter, da cui ho appreso la teoria dell’intersezione ciclica come unica concreta possibilità di interpretazione della realtà economica applicata ai mercati.

Schumpeter – che certo non era un marxista – aveva una concezione molto interessante dello sviluppo del capitalismo. Cito da Wikipedia: “Per Schumpeter sarà, infatti, proprio il successo del capitalismo a renderne inevitabile il declino. Con il processo di distruzione creatrice che la caratterizza, l’economia borghese sostituisce i vecchi modi di produrre e pensare, promuovendo lo sviluppo, ma distrugge anche i valori tipici dell’ancien régime, importante supporto alla stabilità. Soprattutto – e qui si arriva alla geniale intuizione di Schumpeter – mentre nella grande impresa capitalistica il ruolo dell’imprenditore, creativo e diretto all’innovazione, verrà sempre più sostituito dalla mentalità burocratica e tendente all’immobilismo dei manager, nella società si affermeranno, ad opera degli intellettuali, valori contrari allo sviluppo capitalistico, facendo sì che i capitalisti stessi prima si vergognino del proprio ruolo ed, infine, rinuncino ad esso. A quel punto, una qualsiasi forma di socialismo sarà l’inevitabile sbocco al capitalismo monopolistico ed alla sua eutanasia. Il passaggio al socialismo non avverrà, infatti, a mezzo di una rivoluzione violenta, come profetizzato dai marxisti e realizzato dai bolscevichi, ma con un processo graduale, per vie parlamentari – ogni accelerazione rivoluzionaria, come quella sovietica, avrebbe unicamente causato innumerevoli lutti – e darà vita ad un sistema socialista compatibile con la democrazia, in cui si vedrà la concorrenza di gruppi corporativi, non più regolata dal mercato, bensì dallo stato.”.

Fondamentalmente, Schumpeter era un pragmatico che credeva non in un determinismo di economie e mercati, ma in un legame strettissimo tra cause e effetti.

Sarebbe interessante capire cosa ne penserebbero Keynes e Schumpeter  di questa situazione, che vede un Occidente assolutamente disomogeneo tra le sue due grandi aree.

L’Europa non è fuori dal tunnel: gli ultimi dati indicano che si è fermata la discesa, ma non basta. I segnali positivi delle borse fino ad ora sono rimasti isolati e non sono stati seguiti da un miglioramento delle due variabili primarie: fiducia dei consumatori (elemento leading=anticipatore) e occupazione (elemento lagging= ritardatario).

Negli USA la situazione sembra decisamente migliore, anche se le politiche monetarie ultraespansive non riescono a produrre nulla più di una crescita molto flebile, poco più di uno stallo.

Ma è lo scenario più ampio che attrae la mia attenzione e mi spinge a una riflessione che porta a conclusioni diametralmente opposte: e se l’azione del nocciolo duro (finanziariamente e politicamente parlando) dell’Europa in realtà fosse guidata (anche) dalla convinzione che la strada monetarista intrapresa dagli USA non porta da nessuna parte? E se in realtà si stesse veramente facendo il possibile – anche se questo possibile ha lati sgradevolissimi che ciascuno di noi tocca con mano – per evitare all’Europa di farsi risucchiare nel gorgo del debito e della leva? Detto in modo semplice e brutale: e se la Merkel alla lunga avesse RAGIONE?

La riflessione/provocazione non sorge diretta, ma sghemba, come derivata seconda o terza di un nugolo di riflessioni di varia natura sui mercati. Come economista pentito (quindi consapevole della sostanziale inutilità ai fini del profitto finanziario della filiera dati economici > modelli standard > previsioni > strategie operative) non entro nel merito dell’enorme dibattito tra scuola keynesiana e scuola austriaca ma mi limito a prendere atto del qui e ora, che è quello descritto sopra. C’è però dell’altro, che pertiene in modo particolare agli USA e porta a un paio di considerazioni. La prima è operativa. Da fund manager, quale sono, ho progressivamente abbassato la quota azionaria sugli USA in seguito al loro sorprendente declino di forza relativa. Perché sorprendente? Perché molte big caps USA sono globali e perché il dollaro tanto debole non è. Ma i miei modelli sono spietati e in questo momento sono tutti girati contro il mercato americano. Si potrebbe limitare la questione a una osservazione empirica, e cioè che la fuoriuscita dall’Europa era stata talmente massiccia da dover forzatamente causare qualche effetto al momento di un rientro anche parziale. Andando a un livello leggermente più profondo, il vero problema emerge.

“Datemi un punto d’appoggio e vi solleverò il mondo”, diceva Archimede per illustrare il principio della leva. Sicuramente, come mostra il grafico qui sotto, la leva (finanziaria) i mercati li ha sollevati, eccome. Le tre grandi ondate rialziste della borsa USA 1995-2000, 2003-2007 e 2009-oggi sono state ampiamente e palesemente foraggiate dall’uso della leva finanziaria, che si è contratta fino ad azzerarsi nei bear markets 2000-2003 e 2007-2009.

Purtroppo gli ultimi dati mostrano che l’accenno di rientro “pilotato” dagli eccessi del 2011-2012 sta ancora una volta lasciando il posto a una accelerazione nell’utilizzo della leva. L’uso della leva ha un effetto immediato positivo sui mercati, simile a quello di uno stimolante artificiale, e uno negativo (diminuzione della liquidità nella fase di deleveraging) nella fase ciclica negativa. Questo getta pertanto luce sulle possibili modalità di sviluppo dell’attuale ciclo economico e sulla successiva, inevitabile contrazione, almeno sul mercato americano.

Suggerisco a questo proposito due letture molto interessanti, che affrontano la questione da prospettive diverse ma alla fine per certi versi convergenti:

I Tartari (Fugnoli)

http://media.pimco.com/ITDocuments/12-0749%20IO_Oct%202012_IT_final.pdf (Bill Gross di PIMCO)… guardate il Cerchio di Fuoco, dov’è l’Italia e dove sono gli USA…

Sempre allo scopo di stimolare la riflessione (ognuno alla fine può e deve pensarla a modo suo: l’importante sui mercati è fare soldi e soprattutto non perderli), cito un dato interessante. La capitalizzazione della borsa USA in questo momento è al 105% del PIL USA, contro una media storica del 60% che si abbassa al 50% se si esclude la bolla di fine anni ’90. Il rapporto tra capitalizzazione e PIL era 80% prima del crollo del 1972-1974 e 86% prima del crollo del 1987. In questo momento, la capitalizzazione del mercato USA è elevata in quanto il multiplo in termini di prezzo/utili sembra ragionevole. Ma è lo stesso livello di utili che è ai massimi storici in relazione al PIL USA e questa valutazione appare ragionevole solo se si crede che questa situazione eccezionale possa perdurare nel lungo termine. Per fare un paragone, Piazza Affari capitalizza approssimativamente intorno al 20% del PIL italiano.

In questo Regno dell’Ottimismo arrivano le elezioni presidenziali americane, tra le più combattute e – a mio personale avviso – importanti della storia. La partita in gioco trascende pesantemente quella dei due schieramenti e quella dei due contendenti. La partita è tra due visioni antitetiche del mondo e dell’economia: e – a causa della fortissima connessione tra Europa e USA, resa ancora piu’ stretta dalla crisi – qualunque risultato avrà inevitabilmente conseguenze profonde e importanti anche sull’Europa e, a cascata, sul resto del mondo.

E’ velleitario e superficiale dire che se vince uno saranno favoriti certi settori e – se vince l’altro – altri settori. La vittoria di Romney significherebbe il prevalere di una concezione dell’economia fortemente orientata a una visione capitalistica e oligopolica dell’economia e dello stato. La vittoria di Obama significherebbe il prevalere di una concezione di stato completamente diversa, più assistenzialistica e attenta al sociale. Totalmente diverso anche l’approccio in politica estera.

Chiunque vinca si troverà però a provare a correre rallentato da un fardello enorme: la leva di cui sopra. E’ il modo e i tempi con cui questo problema verrà affrontato che farà la differenza. E’ doveroso ricordare che questa leva da qui a qualche mese, quindi sul breve – finché la pacchia dura – avrà un effetto positivo sui mercati, in quanto ovviamente permette a chi opera di giocarsi una grossa partita con un piccolo impegno di capitale. Tutto sembra giocare a favore del leverage in questo momento: la bassa volatilità, i tassi a breve congelati, i tassi a lungo favoriti dal carry trade degli interessi (il che eviterebbe in teoria un crollo dei bonds), lo stesso trend delle borse e degli asset finanziari in generale. In realtà nessun pasto è gratis. Basta guardare i livelli assurdi a cui sono arrivati certi segmenti obbligazionari a causa della fame di rendimenti e della possibilità di ottenerli con grandi leve e piccoli margini di tasso, per far capire a chi conosce i mercati che si preparano anni durissimi sul reddito fisso. Quando questo ciclo sarà finito – e per quanto cerchino di prolungarlo, prima o poi finirà – il rientro da questi livelli di leva, se non sarà gestito con grandissima attenzione e controllo, rischia di provocare soprattutto sui mercati americani un effetto meccanico di intuibili proporzioni e conseguenze.

Sicuramente, un’Europa che fosse riuscita nel frattempo ad affrancarsi almeno parzialmente da una serie di problemi, seppure a carissimo prezzo, potrebbe staccarsi a quel punto dagli USA e cominciare a giocare una partita completamente diversa. Forse è questo il vero 2012.

Keynes e il declino dell’impero americano ultima modifica: 2012-11-03T20:17:13+00:00 da Francesco Caruso